D'Alessandro Giuseppe
Personaggi
Di recente pubblicazione
il terzo volume di:
Niscemi tra cronaca e storia
La guerra di mafia (1983-1999)
Versione ridotta Dizionario Giuridico
degli insulti
D'ALESSANDRO GIUSEPPE
Giuseppe D’Alessandro vive a Niscemi. Avvocato cassazionista, esercita la professione forense presso il tribunale di Caltagirone e la Corte d'Appello di Catania, prevalentemente nel campo penale e della responsabilità professionale. Relatore in numerosi convegni su temi giuridici, collabora con diverse riviste online. Ha partecipato come relatore a numerosi convegni su temi giuridici. Oltre che di questioni legali, si occupa di "linguaggio", con particolare riferimento alle tematiche legate al mondo del diritto e solo per passione scrivi libri. Ne ha pubblicati 8, recensiti da quotidiani e settimanali anche a tiratura nazionale:
Bibliografia
-Bestiario giuridico 1 (Leggi che fanno ridere e sentenze che fanno piangere dal ridere) – editore Angelo Colla;
-Bestiario giuridico 2 (Le offese nel diritto e le offese del diritto) editore Angelo Colla.-Truffe, truffati e truffatori (Se imbrogliare è peccato, lo è anche farsi imbrogliare) editore Angelo Colla.
-L'assassinio del mago di Tobruk e la misteriosa scomparsa della figlia – Bonanno editore.
-Dizionario giuridico degli insulti, A&B editore: raccolta di insulti passati al vaglio della giurisprudenza.
- La Banda dei Niscemesi – Youcanprint Editore
- Niscemi tra cronaca e storia vol. 1° - Youcanprint Editore
- Niscemi tra cronaca e storia vol. 1I° - Youcanprint Editore
- Niscemi tra cronaca e storia vol. 1II° - Youcanprint Editore
Di prossima pubblicazione
- Avvocato si difenda (fatti e misfatti della professione più bella del mondo)
-Lei non sa chi NON sono io (l’arroganza ai tempi di Internet)
-NON ci vediamo in tribunale (come risolvere le controversie senza disturbare giudici e avvocati)
-NON ci vediamo in tribunale (come risolvere le controversie senza disturbare giudici e avvocati)
Cosa dicono di lui
Dal libro di G. D’Alessandro Niscemi tra cronaca e storia
Il 17-7-1799 A NISCEMI: viene impiccato Luciano Votadoro.
La giustizia in quel periodo era amministrata dal principe. E a testimonianza della magnanimità del padrone, agli ingressi del paese venivano collocate delle forche per ricordare a tutti quanto severa fosse la legge, sopratutto per i crimini più gravi, primi fra tutti quelli commessi in danno del Principe stesso. Fino all'inizio del 1800 questo strumento di morte si erigeva in tutta la sua sinistra allegoria in contrada Ursitto.
L'ultimo “utilizzatore” (suo malgrado) del patibolo fu tale Luciano Votadoro: era stato un violento sovversivo, che a colpi di zappa aveva ammazzato parecchie persone.
Di certo la terribile esecuzione di cui fu vittima il Votadoro è legata alle cruente rivolte che si susseguirono quegli anni in Sicilia, anche a danno di notabili. Lo stesso anno in cui venne impiccato, nella vicina Gela identica fine fecero alcuni rivoltosi, che il 3 febbraio 1799 al grido di fuoco ai Giacobini, avevano ucciso e bruciato i corpi di alcuni esponenti della nobiltà locale: il fenomeno prese il nome di Ribello.
Pare che tutto sia nato a Caltagirone, dove si verificò un massacro dei cosiddetti Giacobini. Comunque sia, il 13 luglio 1799 il Votadoro venne prelevato dal carcere, che si trovava in prossimità della piazza, all'angolo tra l' attuale vie Roma (che allora si chiamava per l'appunto via Carcere) e via Scuole, che allora si chiamava stradella Iacona (sotto l'odierno ufficio postale) e condotto vicino la Chiesa Madre.
Qui venne sospeso a una forca alla presenza di un pubblico numeroso e rumoreggiante. Quindi - raccontano le cronache – gli vennero recise le mani e la testa (sine capite et manibus, recitano i documenti) e questi miseri resti furono collocati in una gabbia di ferro sospesa sul muro esterno del “carcere”.
Racconta il canonico Disca che il carcere era situato in un piano quasi interrato, munito di tre finestre con robuste inferriate alle quali i disperati si aggrappavano per elemosinare un po' di cibo ai passanti.
Non vi era pavimento, ma solo un giaciglio (jazzu) fatto di fetida paglia; due stanze destinate agli uomini e una alle donne. I famigliari dei prigionieri dovevano procurare la paglia, se volevano rendere più “confortevole” la detenzione. Sul tetto della “cella” una grossa corda scorreva dentro una carrucola; un capo veniva legato alle mani dell'imputato e dall'altro capo uno sgherro, con tutto il suo peso, lo sollevava in alto. Era questo un modo singolare di procedere all'interrogatorio. (Dal libro di G. D’Alessandro Niscemi tra cronaca e storia)
10 luglio 1943: lo Sbarco a Gela (prima parte)
Nei primi mesi del 1943 era cominciato il razionamento dei generi alimentari, carne in primo luogo; ma anche del petrolio; era scomparso lo zucchero e il caffè (quest'ultimo sostituito dall'orzo tostato o dalle carrube). Quando calava il buio vigeva il divieto di accendere qualsiasi luce, per evitare di essere individuati dal nemico.
Chi aveva necessità di accendere una lampada o una candela aveva l'obbligo di serrare completamente porte e finestre. Si era persino creato un originale sistema di allarme: i tocchi della campana della Chiesa Madre, che ne scandivano l'inizio e la fine; col divieto di rimanere per strada e l'obbligo di porsi immediatamente al riparo al primo tocco.
La maggior parte delle persone si rifugiava in campagna e cominciava a riconoscere il rumore dei velivoli, distinguendoli in “amici” e “nemici”. Il Governo obbligò i paesi a dotarsi di rifugi antiaerei, ma l'ordine rimase solo sulla carta: chi doveva mai costruirli? A Niscemi non si ha memoria di un solo rifugio.
Temendo l'approssimarsi di uno sbarco (cosa poi effettivamente avvenuta) vennero rafforzati i presìdi di difesa con la divisione Livorno, arroccata sul lato ovest della strada statale Gela-Catania e la divisione tedesca Göring sul lato opposto.
Della divisione Göring faceva parte anche il tedesco Luz Long, che ai più non dice nulla: fu l’atleta che venne battuto nelle Olimpiadi di Berlino nei 100 metri da Jesse Owens, l’atleta di colore al quale Hitler rifiutò la stretta di mano. Morì combattendo tra Gela e Niscemi il 14 luglio 1943, dopo essere stato trasportato all'ospedale di Santo Pietro.
A capo del presidio di Niscemi vi era il generale di brigata Orazio Mariscalco. Il campanile della chiesa madre divenne punto di osservazione e venne addirittura presidiato da un manipolo di soldati dotati di mitragliatrice. Il timore di uno sbarco imminente era fondato, nonostante la trappola nella quale erano caduti i Comandi militari italiani e tedeschi, tratti in inganno da un'azione di depistaggio e disinformazione posta in essere dagli Alleati.
Avevano fatto trovare in prossimità delle coste spagnole il cadavere di un poveretto che si era suicidato (subito ribattezzato l'uomo che non è mai esistito) lo avevano vestito da alto ufficiale inglese e gli avevano legato al polso con delle manette una valigia contenente falsi “piani di sbarco”, per convincere i nemici che l'obiettivo non era la Sicilia. Sicché vennero in parte indebolite le difese, ritenendo prossimo uno sbarco nelle coste della Sardegna e della Grecia.
Comunque sia, all'alba del 10 luglio 1943, quando il sole cominciò a illuminare la terra, il mare di Gela era già pieno di navi da guerra. Erano le 7 del mattino quando quei pochi che ancora dormivano in paese vennero svegliati da un colpo di cannone che colpì un caseggiato posto a meno di un chilometro dal centro abitato, nel lato sud che si affaccia sulla piana di Gela. Il bombardamento durò tutto il giorno e tutta la notte, mentre le cannonate abbattevano qualche casa, ovviamente disabitata.
Tutto era iniziato alle 19,30 del giorno precedente: il comando del XVI Corpo d’Armata dirama un allarme ai reparti dipendenti in quanto si prevede un “possibile sbarco”. E in effetti poco dopo mezzanotte (siamo già al 10 luglio) giungono notizie che parlano di avvistamento di lanci di paracadutisti in prossimità di Santa Croce Camerina; un plotone di soldati viene inviato in zona per verificare la fondatezza della notizia. Che evidentemente è confermata, tant'è che un'ora dopo viene ordinato di fare brillare il pontile di Gela (salterà in aria alle 2,50).
In realtà il sentore che le truppe alleate potessero sbarcare nelle coste meridionali della Sicilia c'era stato e da tempo: nel marzo del 1943 la difesa militare era stata rafforzata proprio col trasferimento a Niscemi di un rilevante numero di soldati, che avevano trovato alloggio nelle scuole, che oramai avevano perso la loro naturale funzione.
Racconterà in un'intervista al Giornale di Sicilia un sopravvissuto che la sera del 9 luglio intorno alle 20,30 il comandante della batteria, ten. Francesco Marchegiani, riunì i sottufficiali e disse loro: È giunta l'ora. Le chiacchiere, relative ad un gruppo di navi dirette in Sicilia, sono vere. Uno di questi gruppi sta per arrivare proprio qui a Gela. Noi siamo pronti, andate all'accampamento ed aspettate l'ordine. Ma torniamo allo Sbarco. È passata un'ora e mezza dalla mezzanotte, quando la probabilità si traduce in certezza: scatta lo stato di emergenza. La conferma arriva proprio da Niscemi: in contrada Camera cade un aereo e reca il simbolo della bandiera a stelle e strisce.
Da quel momento è tutto un susseguirsi di azioni militari, in parte pianificate, in parte lasciate a iniziative scoordinate. Alle 3,50 arriva la notizia ufficiale: gli Americani sono sbarcati in prossimità del pontile di Gela, mentre alle 4,05 truppe a stelle e strisce vengono segnalate in giro per Gela.
E così la città del Golfo diviene la prima città d’Europa ad essere liberata. Qualche ora dopo, un centinaio di paracadutisti viene notato a circa due chilometri dal centro abitato di Niscemi e nelle ore successive i lanci continueranno a ritmi sempre più incalzanti.
Ben presto la città si trova al centro della battaglia. Alle 14,10 un ufficiale comunica che circa 60 paracadutisti armati di mitragliatrici sono asserragliati in caseggiati della contrada Pisciotto (dove attualmente sorge il resort Feudi del Pisciotto). La situazione – appare evidente – non è più sotto controllo.
Un drammatico comunicato viene diramato alle 18,40 e riferisce che il gruppo ha subìto le seguenti perdite: un ufficiale, feriti 4 ufficiali. Perdite fra la truppa circa un centinaio tra morti, feriti e dispersi. Materiale: un carro d’assalto rimasto a Gela inutilizzato, due carri inutilizzati rientrati a Niscemi, due auto carrette distrutte, un numero imprecisato di tricicli (motocarrozzette) distrutti. Nel complesso è stata perduta più della metà delle armi.
L'indomani la situazione si aggrava notevolmente. Alle 5,30 il comando del XVI Corpo d'Armata dirama un ordine indirizzato alla stazione Carabinieri di Niscemi e agli altri comandi delle città del litorale: eventualità che reparti debbano temporaneamente sgombrare territorio prescrivo che rimangono sul posto soltanto CC. RR. territoriali et ufficiali medici non appartenetti a reparti combattenti. Magazzini et depositi di qualunque specie devono essere distrutti.
Tutti capiscono che è solo questione di ore. In effetti all'arrivo delle truppe a Niscemi i carabinieri si faranno trovare sul posto. L'imponenza dell'operazione di Sbarco è compendiata in una nota del generale Mariscalco diramata alle ore 11 dell'11 luglio 1943: tutta la zona di Gela è coperta da una densa cortina di nebbia artificiale, che arriva sino a Niscemi.
Intorno a mezzogiorno accade un episodio mai chiarito: due velivoli caccia con l'emblema della Luftwaffe tedesca, in contrada Apa, mitragliano dall'alto due autocarri anch'essi tedeschi carichi di carburante, incendiandoli.
Analogo bombardamento di aerei “tedeschi” contro veicoli “tedeschi” era avvenuto in mattinata in altre zone. Molti dedussero che in aria volavano aerei americani camuffati. La battaglia nei cieli di Niscemi prosegue sopra un paese oramai del tutto disabitato.
Nel primo pomeriggio, alzando gli occhi al cielo, qualcuno assiste a un duello tra un aereo tedesco e un quadrimotore delle truppe alleate: il primo fa appena in tempo ad abbattere il secondo, ma viene a sua volta colpito e precipita. L'equipaggio si lancia col paracadute e si rifugia a Niscemi. E mentre il comando della Divisione tedesca Göring si trova a tre chilometri a sud del centro abitato niscemese (dove attualmente è collocata la stazione di pompaggio dell'acquedotto) gli Americani riescono a interrompere in via definitiva le comunicazioni delle truppe italo-tedesche.
La sera dell'undici Niscemi subisce un potente bombardamento: alle 19 le artiglierie navali allungano il tiro verso la Città, verosimilmente per rendere inservibili le strade. Quel che accadde è descritto nel comunicato del generale Mariscalco: quattro colpi sono caduti nel centro dell’abitato di Niscemi, altri tre alla periferia, molti nelle campagne adiacenti. Le perdite finora accertate in Niscemi sono di quindici morti fra la popolazione civile. Non si conosce ancora il numero dei feriti. A conti fatti, secondo le stime ufficiali, nel nisseno ci furono 751 vittime civili: 136 a Gela (con 1.300 case su 14.000 distrutte) 92 a Niscemi, 51 a Mazzarino e 9 a Butera.
Il ricordo unanime di quanti furono testimoni oculari è tutto concentrato sulla visuale di Gela. Quella mattina la poca gente rimasta si precipitò nei punti da dove era possibile scorgere il mare, primo fra tutti il Belvedere. Se potesse riassumersi in quattro parole quella che era la sensazione, si potrebbe dire: il mare diventò nero. Si narra di un bambino dell’epoca che correva per le strade gridando u mari nun c’è cchiu!
Un tale Rinaudo – trascinando un asino – tentava di mettersi al riparo, quando un colpo di cannone tranciò in due l'animale e il contadino rimase con le briglie in mano e la sola testa dell'asino attaccata. Giova ricordare che allora un animale da soma costituiva un capitale e la perdita era considerata un lutto. Ha raccontato a questo autore un lucido novantenne che a un contadino povero suo vicino di casa morirono in contemporanea la moglie e l’asino. Ricorda ancora questo arzillo vecchietto – con un sorriso amaro – che il poveretto piangeva più l’asino che la moglie! D'altronde un antico detto niscemese recita: o riccu cci mori a muggheri, o poviru cci mori u sceccu.
Ma torniamo ai momenti concitati dello Sbarco. Le difese erano arroccate a Spinasanta e in località Priolo, mentre venivano fatti saltare in aria i ponti sul Maroglio e sul Cimia, precedentemente minati. Alle 03,35 il primo soldato alleato aveva poggiato il suo piede sulla spiaggia di Gela.
Qualche ora dopo il generale Guzzoni, comandante delle truppe per la Sicilia, diede ordine alla Divisione Livorno di contrattaccare. Partirono così da Niscemi 32 carri armati Reanult 35 (il cosiddetto gruppo mobile E) che furono oggetto di fuoco nemico: dall'incrociatore Savannah furono scagliati proiettili che annientarono quasi del tutto il contingente.
Il fuoco, particolarmente intenso, proveniva da una nave corazzata chiamata Abercrombie, che sparava micidiali proiettili da 381 mm. verso il entro abitato, allo scopo di fermare sul nascere le azioni di contrattacco.
A dare manforte intervenne pure la divisione tedesca Göring, nel tentativo di bloccare il nemico sul bagnasciuga, per come aveva preconizzato Mussolini in un celebre discorso del 24 giugno precedente (il discorso del bagnasciuga).
Al momento dello Sbarco ci fu pure qualche corpo-a-corpo e ben presto truppe australiane e neozelandesi si impadronirono del campo di aviazione di Ponte Olivo. I soldati tedeschi, dopo avere combattuto in contrada Priolo, si allontanarono verso monte San Mauro, nei pressi di Caltagirone; ma anche in contrada Vituso vi furono azioni di guerra. Alla fine della battaglia si contarono oltre tremila morti fra gli Angloamericani, quattromila morti tra le truppe italo-tedesche, cinquemila feriti e duemila prigionieri. SEGUE
(Tratto dal libro Niscemi tra cronaca e storia di G. D’Alessandro – ed. Youcanprint)